intervista a cura di elisa chinazzo

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TALENT asia bertoli

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Parliamo con Asia, giovane ricercatrice che esplora le radici politiche e culturali dell’hip-hop, il suo impatto sulla moda e la sua evoluzione verso il mainstream

Il motivo per cui siamo qui oggi è capire che lavoro fai e come mai hai scelto di farlo. Ti va di parlarcene? Bellissima domanda, ma non sono sicura di essere pronta! Attualmente sto facendo un dottorato di ricerca presso l’Università di Zurigo, nel dipartimento di Antropologia Sociale e Studi Sociali, con una co-tutela all’Università di Torino, nella facoltà di Filosofia e Scienze dell’Educazione. La mia ricerca si concentra sulle estetiche dell’hip-hop, sulla sua storia e sul percorso che l’ha portato a diventare mainstream. Durante la triennale, ho studiato al DAMS, ma è stato quando mi sono appassionata alle connessioni culturali e politiche della società che ho deciso di cambiare indirizzo. Mi sono imbattuta quasi per caso nelle culture afroamericane e nell’hip-hop, che presentano molti punti in comune, e ne sono rimasta affascinata. Durante la stesura della tesi, ho conosciuto la professoressa Cristina Voto, che lavorava come ricercatrice, e ho capito che anch’io avrei potuto intraprendere questa carriera. È stato quindi un mix di passione e curiosità verso tematiche moderne e contemporanee, spesso trascurate dalle università stesse. – Ah, quindi sei una scienziata delle persone!


Come si svolge una tua giornata lavorativa e come si svolgono le singole ricerche? Non c’è una giornata tipo, ma il processo inizia leggendo e sviluppando idee che devono avere un senso, e alla fine si scrive. È un lavoro lungo, che può durare anni. Di solito lavoro da casa, anche se l’università propone attività e conferenze e ogni tanto ci sono degli interventi. Nella vita privata, mi capita spesso di fare collegamenti con il mio lavoro, anche quando vorrei rilassarmi! Nel mio tempo libero pratico rugby, che è l’unica cosa che credo non sia collegata al mio lavoro.

Ti capisco, per me la moda è un’ossessione! Ma parliamo dell’hip-hop: quando nasce, dove e perché? L’hip-hop nasce negli USA a metà degli anni ’70 e coinvolgeva musica (con remix di basi esistenti e rap), break dance e graffiti. Nel 1979 esce la prima registrazione su disco, dove il rap prevaleva e la base veniva creata ex novo per la commercializzazione. È il frutto di un bisogno culturale e la teoria più accreditata lo colloca a New York, nel South Bronx, tra artisti e gente comune, principalmente afroamericana. Alla base c’erano anche motivazioni politiche, come la ghettizzazione dei quartieri: fu costruita una superstrada che collegava i sobborghi al centro, ma a scapito delle abitazioni povere, causando povertà e incendi volontari per incassare i soldi delle assicurazioni. La vita quotidiana diventava sempre più difficile e la necessità di svago tra i giovani cresceva, esprimendosi tramite musica, danza e graffiti. C’era un forte sentimento di “orgoglio nero”, in contrapposizione alle generazioni precedenti che cercavano di adattarsi agli stili di vita dei bianchi. Questo orgoglio culturale si rifletteva anche nella moda, che ha poi portato allo streetstyle di oggi. Indossavano abiti colorati e oversize, tute, bomber, baggy jeans, bandane, capellini, gioielli appariscenti come le catene e scarpe Adidas o Nike. Poi si è sviluppata anche la mania per i loghi del lusso, con le rielaborazioni di Dapper Dan e i look da gangster in completo, ispirati alla “vita di strada”, evolvendosi con le influenze stilistiche di ogni periodo.

Quando è diventato mainstream l’hip-hop? E così facendo, credi che abbia perso l’iniziale significato politico? Non sono del tutto d’accordo nel dire che l’hip-hop sia nato come movimento politico, perché inizialmente la musica si suonava nelle discoteche per divertirsi. Ha acquisito una dimensione politica solo quando è uscito dalla comunità afroamericana. Vivere e divertirsi in un corpo nero, allora come oggi, è un atto politico. Purtroppo, l’ambiente resta molto maschilista e omofobo, nonostante la presenza di donne e persone LGBTQ+. Ci sono studi che analizzano i testi rap per verificare quante parole offensive vengano usate contro queste categorie. L’hip-hop è diventato mainstream in modo graduale: negli anni 2000 i rapper sono diventati vere celebrità, ma direi soprattutto negli ultimi dieci anni, quando si è diffuso in Europa, Africa e Sud America, senza essere una semplice imitazione di ciò che dicevano gli statunitensi.

È più corretto parlare di sottocultura o controcultura? Se guardiamo alle origini, l’hip-hop può essere considerato sia una sottocultura che una controcultura. È diventato mainstream con la musica, basti pensare che negli ultimi anni gli album hip-hop sono stati spesso i più venduti. Oggi non è più legato solo alla comunità afroamericana, ma si è diffuso in altri paesi e tra persone diverse, che lo hanno fatto proprio e reinterpretato.

Dai, dicci un tuo artista preferito! Ti dico una curiosità: nonostante studi hip-hop, non sono appassionata del rap statunitense e dell’hip-hop in lingua inglese.

La moda, la musica e la politica si influenzano a vicenda, come accennava Simmel teorizzando che la moda fosse “figlia del suo tempo”. Sembra che l’abito faccia il monaco, riflettendo ciò che un individuo è in un dato momento: perciò tutto ruota attorno al concetto d’identità? L’identità esprime chi siamo o come vogliamo essere percepiti, ma è relativa. Nell’hip-hop si gioca molto sulla percezione altrui, esprimendosi in modo “ribelle” non per piacere agli altri, ma per se stessi. Oggi, con i social e la globalizzazione, il concetto di identità si è evoluto: molte persone si fanno prestare i vestiti solo per apparire online. Ho fatto una ricerca sui grillz (accessori per i denti), e i gioiellieri mi dicevano che la maggior parte vengono acquistati solo per foto e video, non per l’uso quotidiano, nonostante siano costosi. Diventa così un atto comunicativo più che un’espressione autentica di sé, e le vere intenzioni dietro questi gesti sono difficili da capire.

Ci sono ancora delle sottoculture e controculture? Oltre alle classiche ancora esistenti, non sono troppo informata, ma il successo del K-POP ne è una prova: è arrivato fino in Occidente, nonostante la Corea non sia una minoranza come nelle altre sottoculture. Ha coinvolto musica, TV (K-drama) e moda. L’hip-hop è stata una delle ultime. Purtroppo, quando una novità arriva da paesi non occidentali, viene spesso etichettata come volgare o di poco valore rispetto alla cultura bianca. Questo è un problema radicato nella nostra cultura eurocentrica e colonialista. Le sottoculture, però, avranno un futuro. Oggi, infatti, anche la cultura mainstream è un mix di tante culture e sottoculture, poiché i confini sono sempre più labili.

Si parla tanto di core nella moda, ma si tratta di trend che spopolano sui social e nascono dall’estetica; si può dire che abbiano un risvolto sulla società o sono talmente veloci che non lasciano nulla? Sì, non sono legati all’arte, alla musica, alla politica o alle classi sociali, che sono elementi essenziali per definire una sottocultura. L’espressione artistica e culturale è il requisito fondamentale, e i valori sociopolitici devono essere almeno parzialmente condivisi. È difficile che una sottocultura nasca da una persona privilegiata, perché la società è già strutturata per lei. Generalmente si parla di minoranze etniche o di gruppi che presentano differenze rispetto alla maggioranza della società.

Per curiosità abbiamo cercato su Google se oggi ci fossero delle sottoculture e l’unica che ci ha colpito di più è la comunità LGBTQ+, nonostante trovi riduttivo etichettarla così. Mentre quella che mi ha fatto più ridere è la new age wellness, tu che ne pensi? La comunità LGBTQ+ si può considerare una sottocultura, perché ci sono ancora tante disparità e ha un’espressione artistico-culturale, mentre sono d’accordo con te nel dire che la passione per il fitness non abbia abbastanza requisiti per essere rilevante.

Cosa ti riserverà il futuro? Continuerò il mio dottorato e mi aspetta un viaggio negli USA, sempre per l’università. Voglio migliorare la mia ricerca, perché certi argomenti sono stati raccontati principalmente da persone bianche (come me), spesso trattati con poca empatia, come se si stesse facendo un documentario del Discovery Channel. Il problema nasce quando la propria cultura e il vissuto non rispecchiano ciò di cui si parla, rischiando di rappresentarlo in modo errato o ignorarlo inconsciamente.

Ci puoi consigliare delle letture riguardo il tuo lavoro? Il libro di Krista Thompson “SHINE: The Visual Economy of Light in African Diasporic Aesthetic Practice” è un mix tra la ricerca accademica e la narrativa, attraverso le immagini!Invece i miei articoli vengono pubblicati su riviste scientifiche o di settore.


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