di ALL in mag
Il Valentino di Alessandro Michele
kevin clement
Finiti i più di venti minuti di défilé, il mio sentimento di eccitazione sembrava essersi quasi trasformato in noia. “Pesante” è stata la prima parola che mi è balzata in mente. Con gesto rapido mi sono subito catapultato su altro, la presentazione di Céline per l’esattezza, non pensando neanche più a ciò che avevo appena visto. Ormai è così: se è un colpo di fulmine bene, altrimenti avanti il prossimo. Dopo qualche ora, però, vagavo per casa e canticchiavo “bisogna gioire, bisogna gioire”. E così l’ho riguardata.
Quando si rimane così folgorati da qualcosa si tende a fissare quell’immagine nella memoria e a sperare che non cambi mai. Così ho fatto io, e sono certo tanti altri come me, con il Gucci di Alessandro Michele, un mondo così straordinario da non voler più uscirne. Michele, invece, da quel mondo ci è uscito, l’ha chiuso in un cassetto come si fa con i ricordi a noi più preziosi. Perché il suo Valentino non è la ripetizione del suo Gucci. Semmai ne è il prosieguo, la maturazione di un pensiero – e di una persona. Il gusto di Michele in Valentino, diversamente dal passato, si fonde con un heritage e un gusto ben delineati i cui punti in comune sono tanti, forse troppi. Opulenza, massimalismo, Roma: estetiche amate sia da lui che da M. Valentino Garavani, che quindi non creano un cortocircuito inaspettato, ma si elevano alla massima potenza. Il corpo è elegantemente nascosto da strati di chiffon, pizzo, crêpe de chine, ricami, fiocchi, turbanti, pellicce, a volte tutto in un unico look. Michele non sta entrando in un mondo ignoto, sa bene dove operare, e la sua destrezza è evidente in tutte le ottantacinque uscite. Lo fa con discrezione, esaminando ciò che lo circonda, studiando attentamente la vita di un uomo in grado di costruire un’immagine forte e riconoscibile non solo di se stesso e della sua maison, ma di uno spaccato sociale ben preciso.
Non sono mai stato affascinato da quello che ormai è ampiamente riconosciuto come quiet luxury. L’ho sempre trovato puro marketing, un modo per accontentare la clientela, per omologare, per farsi meno domande, creare meno discussioni. Un approccio spacciato come minimalista, ma che in realtà è solo vuoto e noioso, caratteristiche ben distanti dal vero minimalismo. Nonostante ripudiassi questa idea di moda, ne ero io stesso schiavo. Alessandro Michele costringe al pensiero. E il pensiero porta a pareri, diversi talvolta. E a questo noi non siamo più abituati. Non abbiamo tempo di analizzare le cose così in profondità, né tantomeno la voglia. Tutto deve essere cristallino, immediato, e così il nostro giudizio. Perciò il suo Pavillon des Folies l’ho guardato una terza volta.
E più lo guardavo, più mi immergevo in questo mondo così distante dal mio, più mi sentivo leggero, entusiasta. Non deve piacere, non servono giudizi, forse non siamo tenuti neanche a capirlo fino in fondo: basta ammirarlo. Un designer che a tutti costi mantiene la sua libertà creativa e sbatte in faccia a tutti il suo gusto, il suo modo di vedere la moda. Quello di Michele è un viaggio. Si ha una vaga impressione di dove si stia andando, ma fino a che la meta non viene raggiunta, non lo si saprà mai realmente. Ed è qui che questo viaggio diventa magico.
federica lo cascio
A pochi giorni dall’uscita della primissima campagna di Michele per Valentino, mi prendo del tempo per somatizzare tutto quello che abbiamo visto. Una sfilata di ben 85 look, di cui non ricordo nemmeno uno. Per questo, Alessandro, devi perdonarmi. E devi farlo perché ti reputo un genio, alla stregua di Alexander McQueen, Karl Lagerfeld e Vivienne Westwood. Siete davvero pochi nel mio Olimpo, ma sappi che nonostante tutto tu sei lì. Nonostante il fatto che non riesca a trovare diversità tra il suo Valentino e l’immenso lavoro che ha fatto da Gucci e magari è giusto così. Nonostante abbia amato l’immaginario di questa spring summer con la sua incredibile scenografia che ci porta in una vecchia dimora impolverata, da esplorare e forse anche spaccare in piccoli pezzi come il pavimento di specchi. Tuttavia, mentre cerco ancora le review su Vogue Runway del tuo debutto, digito “Gucci”.
Michele ha detto di essersi recato negli archivi della maison prima della fine del suo primo giorno in azienda: “è così vivo; è un luogo con molta storia – ha osservato – si può trovare davvero di tutto all’interno: anni ’80, ’70, ’60. Per uno come me che adora analizzare tutte queste cose, è un privilegio”. Ecco che lo immagino come un bambino con il pieno controllo in un negozio di giocattoli in cui può finalmente prendere tutto e lo fa contemporaneamente, senza un nesso logico, senza una coerenza di stili. Prende quello che gli ispira da un’azienda che fin dal 1960 ha modificato il suo design molte volte, sempre in modo pulito ed elegante. La costruzione di Piccioli fino ad ora aveva fatto di questo punto un filo conduttore tra il suo lavoro e quello di Valentino Garavani. Sappiamo anche che è una cosa molto difficile da fare. Trovare l’equilibrio tra il proprio lavoro di designer e quello di direttore creativo per un brand (tra l’altro con il proprietario del nome ancora in vita) è quasi una missione impossibile. Lo stiamo vedendo con Sabato da Gucci, lo abbiamo visto però anche con Lagerfeld da Chanel prima e dopo la sua morte, non vorremmo vederlo ancora per molto da Valentino.
Nella campagna Avant Les Début di Michele, la cosa più di Valentino che c’è è il carlino. Dispiace dirlo perché la regia è di un livello incredibilmente alto. Non è solo una campagna ma un teaser di un film di Fellini. È una metafora dell’entrata di Michele (e tutta la sua visione artistica) nel mondo di Valentino attraverso la scelta della location (Palazzo Mignanelli, storica dimora della griffe). Così il video diventa il modo per omaggiare Roma e la sua bellezza che però è chiaramente decadente, sia in senso metafisico che politico. Sappiamo tutti che Roma non è solo questo. Aspettiamo di vedere come continuerà il suo viaggio tra la città eterna e uno dei suoi brand più grandi. Pertanto, bisognerà attendere e basta?


Kevin Clement ha scritto, qui sopra, che Michele non deve piacere a tutti e in fondo forse non dobbiamo neanche cercare di capirlo. Ma ciò che mi domando io è: quello che deve fare un designer è buttare in faccia a tutti il suo gusto stilistico anche in un brand che non è il suo? Non dando altre vie di uscita? Un unico immaginario onirico per tutti i brand, un’unica via senza una meta da seguire? Io invece vorrei fluttuare nella galassia con tante e diverse sfaccettature di Alessandro. Attendo con ansia questo surreale viaggio.
Nel frattempo, i POV di ALL in mag continueranno a darvi sempre due facce della stessa medaglia.

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